Un governo fragile per il dopo Netanyahu, ma Israele vuole cambiare

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dopo Netanyahu
(foto da account FB di Y. Lapid)

Un nuovo governo e un nuovo primo ministro, anzi due. Il 36esimo governo di Israele, guidato dal premier Naftali Bennett, manda in soffitta dopo 12 anni l’era di Benjamin Netanyahu. Bennett ha un accordo di staffetta alla guida dell’esecutivo. Tra due anni lascerà il posto a Yair Lapid, oggi vicepremier e ministro degli Esteri. La nuova coalizione ha avuto la fiducia alla Knesset per un voto soltanto. Una maggioranza esigua, terribilmente fragile.

Lista Araba

I sì sono stati 60, i voti contrari 59 e un astenuto. Un deputato della Lista Araba Unita, che rappresenta gli arabo-israeliani ed è per la prima volta al governo. Dopo quattro elezioni in due anni e mesi di continua incertezza politica si è evitata per un soffio la quinta chiamata alle urne. Con la classica ironia ebraica un commentatore ha rilevato: “Sulla carta il governo aveva 61 parlamentari sui 120 seggi della Knesset, ma alla fine non è riuscito a convincere proprio il 61esimo… Il governo non si regge su di un un voto, ma oscilla su una astensione”. La coalizione è nata dall’accordo raggiunto tra otto partiti.

Timone

Il più forte è Yesh Atid, il partito centrista di Lapid. Ci sono poi Blu e Bianco del ministro della Difesa, Benny Gantz; Yamina, la formazione ultranazionalista di Bennett. E ancora, il Partito Laburista, la formazione storica i cui leader hanno fondato lo Stato di Israele; Yisrael Beiteinu, il partito degli immigrati dalla Russia, guidato da un acerrimo nemico di Netanyahu, Avigdor Lieberman. Presenti anche Nuova Speranza, nato da una scissione del Likud; Meretz, il partito pacifista e più a sinistra e la Lista Araba Unita. Al timone, per i primi due anni, Bennett, 49 anni, multimilionario ed esponente della destra intransigente. Si oppone alla soluzione dei due Stati per superare il conflitto israelo-palestinese e sostiene l’annessione dei territori in Cisgiordania.

Mosaico

La coalizione rappresenta un mosaico di posizioni che rischiano di mettere a repentaglio la stabilità del governo. Congelate le questioni interne più controverse, a partire dai temi legati ai temi religiosi. Uno status quo difficile, con la pressione continua dei partiti ultra-ortodossi, già alleati di Netanyahu e oggi all’opposizione. L’esecutivo si concentrerà soprattutto sulle questioni sociali ed economiche e sulla realizzazione di nuove infrastrutture: ospedali, ma anche un secondo grande aeroporto.

Due mandati

C’è poi la volontà comune di varare una legge che limiti la carica di premier a un massimo di due mandati. Ciò per bloccare qualsiasi piano di Netanyahu di tornare a candidarsi. L’ex premier, ora leader dell’opposizione a capo del partito di maggioranza relativa Likud, continua a essere sotto processo per diverse accuse di corruzione e teme che gli venga tolta l’immunità parlamentare. Bibi, come è soprannominato, ha già promesso che tornerà e anche prima del previsto. “Netanyahu – osserva Ben Caspit, commentatore del quotidiano Maariv – è non è stato sconfitto dalla sinistra o dalla destra, ma dal desiderio della maggioranza degli israeliani di vivere in tranquillità, senza accanimento, senza odio e, soprattutto, senza le sue infinite bugie”.

Agenda

Lapid, in una dichiarazione congiunta con Bennett, ha sintetizzato: “Gli israeliani meritano un governo efficiente e responsabile. Che metta il bene del paese in cima alla sua agenda”. Vero convitato di pietra resta il tema del conflitto con i palestinesi. La recente guerra di 11 giorni tra Israele e Hamas, la formazione fondamentalista islamica che comanda a Gaza, si è conclusa con un cessate il fuoco sempre sul filo del rasoio. Un accordo basato sulla formula “quiet for quiet”, tu non spari a me e io non sparo a te. Le parti hanno concordato di non lanciare razzi e di non replicare con bombardamenti. Se questa intesa fragilissima dovesse rompersi, diventerebbe inevitabilmente un banco di prova pesantissimo per il nuovo governo.

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