
I protagonisti delle “giunte rosse” raccontano. Un libro a cura di Andrea Ambrogetti (“Giunte rosse. Interviste sul buon governo”, Gambini Editore, 15 euro) ci riporta a una pagina significativa della nostra storia. A quella parte della modernizzazione dell’Italia – a quei tempi targata Democrazia cristiana – avvenuta tra le piazze, i parchi e le biblioteche di tante città italiane guidate per decenni dalle giunte rosse. Una storia di buon governo che ha lasciato segni duraturi. Nel quadro del paradosso storico di un partito, il PCI, che non ebbe mai accesso al governo nazionale. Pur esprimendo una importante cultura di governo a livello locale.
Passioni
Una vicenda ricca di passioni, di intelligenze e di storie di vita in un contesto nazionale e internazionale di forte contrapposizione. Le giunte rosse consegnano alle nuove generazioni un patrimonio sul quale riflettere e lavorare nei prossimi decenni. “I racconti dei sindaci e degli assessori – scrive nella prefazione il giornalista de La Stampa, Fabio Martini – restituiscono una stagione politica e storica poco raccontata”. Quella della a generazione dei sindaci che “venivano da lontano”: Giuseppe Dozza a Bologna, Maurizio Valenzi a Napoli, Luigi Petroselli a Roma, Aldo Aniasi a Milano, Diego Novelli a Torino. Stagioni amministrative che ci riportano alla Bologna dei “felicissimi esperimenti in campo urbanistico e dei servizi, che poi hanno fatto scuola e non soltanto in Italia”. E “il pensiero – rimarca Martini – va anche al geniale Renato Nicolini, l’assessore alla Cultura di Roma”, che con la sua “Estate romana” aprì una strada formidabile.
Guerra fredda
Un’esperienza quella delle giunte rosse, ricorda Ambrogetti nell’introduzione, che spesso ha coinvolto tre livelli di governo: comuni, province e le regioni. Il PCI, pur escluso dal governo nazionale dalla logica della Guerra fredda, diede un contributo importante alla modernizzazione del Paese, ma anche della sinistra italiana. In un rapporto di confronto e di legame soprattutto con il Partito socialista. Rimasto in piedi anche quando al governo nazionale il PSI preferiva la collaborazione esclusiva con la Democrazia cristiana.
Riformista
“Il PCI – si chiede Ambrogetti – è stato sempre riformista? Il dibattito è aperto”, ma dove ha governato la risposta è sì. “La questione della doppiezza è evidente – aggiunge -, però occorre anche pensare che il farsi carico dell’attuazione sostanziale della Costituzione repubblicana è stato l’impegno” in cui hanno creduto tante donne e uomini del PCI. Nel 1975 quando il PCI raggiunse il record del 33.4% dei consensi a livello nazionale, c’erano 5 Regioni amministrate dalle sinistre, 32 province e 37 capoluoghi.
Titolo V
“Un’esperienza così lunga e così significativa – sostiene l’autore – da assumere inevitabilmente una notevole rilevanza”. Il tutto in un quadro iconicamente italiano di una “legislazione carente o mancante”. Ciononostante, conclude Ambrogetti, i risultati furono raggiunti “prima dell’esplodere del localismo leghista, prima delle discussioni infinite sul federalismo. Prima delle leggi sull’autonomia e dell’elezione diretta dei sindaci. Prima della riscrittura del Titolo V della Costituzione e prima dei fondi europei”.