22 C
Roma
sabato, 10 Giugno 2023

Giorno della Memoria: Sami Modiano, “Finchè avrò forza testimonierò”

Per anni, Sami Modiano, novantaduenne, sopravvissuto della Shoah – nel 2020 insignito dal capo dello Stato Mattarella dell’onorificenza di Cavaliere di Gran croce – ha portato con sé il suo vissuto in silenzio, insieme all’interrogativo a cui non trovava risposta riguardo il suo esser sopravvissuto: “Perché io?”. Ma da quando, nel 2005, ne ha parlato per la prima volta accompagnando degli studenti delle superiori ad Auschwitz-Birkenau, ha deciso di dover dare il suo contributo nella trasmissione della memoria. Rispondendo finalmente alla domanda che per decenni lo interrogava. “Ho giurato che non mi sarei fermato, finché avrò la forza sarò presente per ricordare”, dice a Interris nell’intervista realizzata in occasione della Giornata della memoria.

Modiano è nato e vissuto nell’isola greca più grande del Dodecaneso, nel mar Egeo, Rodi, all’epoca appartenente all’Italia. Ed è uno dei pochi superstiti della tragedia avvenuta nel cuore dell’Europa. Già da bambino di appena 8 anni conosce l’insopportabile peso dello stigma dell’essere considerato “diverso”, perché di origine ebraica, a causa delle leggi razziali, mentre pochi anni dopo affronta l’incubo della deportazione dell’intera comunità ebraica di Rodi: duemila persone stipate dai tedeschi in battelli cargo da bestiame, in una situazione dove il pudore e l’intimità erano negati, fino all’ingresso nel campo di Auschwitz-Birkenau, nell’estate 1944, dove si manifestava l’orrore della cosiddetta “soluzione finale” nel lavoro stremante, nel freddo, nella fame, nelle camere a gas e nei forni crematori.

“Dopo l’armistizio  dell’8 settembre 1943 – racconta Modiano – i tedeschi non hanno accettato che Rodi rimanesse italiana e l’hanno occupata, così piccola comunità ebraica di duemila persone viveva in ansia, in attesa della loro decisione. E’ stata presa il 18 luglio 1944, quasi si speravano che non deportassero più nessuno anche perché stavano perdendo la guerra: invece hanno cancellato una comunità che ha vissuto 500 anni a Rodi. Avevano preparato quattro piccoli battelli cargo da bestiame, il 18 luglio ci hanno preso e il 23 ci hanno portato al porto, mettendoci dentro queste stive che non avevano nemmeno pulite. Siamo partiti verso una destinazione che non conoscevamo stipati peggio degli animali. Avevo 13 anni e mezzo, e mi trovavo, insieme a mia sorella di 16, a mio padre e a tutte le persone che vedevo nel quartiere e nelle sinagoghe ero stato educato al rispetto in un posto dove non si può descrivere la vergogna, con solo cinque secchi d’acqua e un bidone vuoto a disposizione. L’acqua era distribuita a chi aveva la priorità, diversi giovani hanno rinunciato alla loro poca acqua per cederla a qualcun altro, come un’anziana agonizzate. Poi quando una donna anziana è morta, i tedeschi l’hanno buttata in mare: una scena che non posso scordare”. “Noi nei campi di sterminio eravamo già condannati, a Birkenau c’erano cinque camere a gas e cinque forni crematori. Siamo arrivati il 16 agosto e all’ingresso Josef Mengele, insieme ai suoi collaboratori, faceva la selezione. L’80% dei duemila che eravamo sono stati scelti per essere mandanti direttamente nelle camere a gas, ma abbiamo preso conoscenza di tutto questo soltanto dopo. Il restante 20% era sfruttato come forza lavoro per mandare avanti quella fabbrica della morte. Io avevamo il numero B7956. Ho perso molto presto mia sorella Lucia, poi gli zii, i cugini, e dopo 15 giorni perso anche mio padre: a fine settembre 1944 ero già rimasto solo. Mio padre mi aveva dato la sua benedizione e quando volevo farla finita anche io ripensavo alle sue parole e alla mia promessa che avrei resistito. Non volevo deluderlo”.

“Il 10 gennaio 1945, mentre imperversavano i combattimenti tra russi e tedeschi, sono stato portato in un ambulatorio, ridotto a uno scheletro di poche decine di chili, dove mi hanno prelevato sangue mattina e pomeriggio, non se per soccorrere i loro feriti. Dopo qualche giorno ho preso parte anche io alla marcia della morte, tre chilometri da percorrere al freddo con indosso solo un pigiama di tela, un cappello e un paio di zoccoli di legno, circondati dai cani pastori e seguiti dagli aguzzini che davano il colpo di grazia a chi non ce la faceva: nessuno doveva rimanere in vita per testimoniare ai russi. A un certo punto sono crollato nella neve, e mentre pensavo ‘papà scusami, non ce la faccio più’ ero contento, perché mi sarei avvicinato a mio padre e a mia sorella. Poi due persone mi hanno sollevato, trascinandomi fino ad Auschwitz dove mi hanno poggiato su un gruppo di cadaveri. Poi sono riuscito, alternando perdite di conoscenza e momenti di ragione, a trascinarmi dentro un fabbricato per ripararmi dal freddo. Mi sono poi risvegliato tra le braccia di una dottoressa russa (il 27 gennaio 1945 l’Armata rossa aveva liberato il lager, ndr). Ad essere sopravvissuto – conclude Modiano la sua testimonianza – ti senti in colpa, un privilegiato: hai lasciato tutti e sei rimasto da questa parte. Vivo con i miei incubi dove rivedo mia sorella”.

Gianfranco Eminente
Gianfranco Eminente
Cronista prima di tutto. Ha iniziato il praticantato ed è diventato giornalista professionista lavorando per 'Il Giornale d'Italia' nel 1974. E' passato poi all'Agenzia Italia ricoprendo vari incarichi: inviato speciale, capo degli Esteri e del servizio Diplomatico, anche quirinalista e dal 1989, a Montecitorio, redattore capo e responsabile del servizio Politico di questa primaria agenzia di stampa nazionale. Nel 2001 è stato nominato vice-Direttore vicario sempre all'Agi, incarico che ha mantenuto fino al 2009. Giornalista parlamentare.

Altro dall'autore

Articoli più letti